martedì 10 ottobre 2017

Elogio dell'imperfezione


La Dunhill 4124 di mio padre. La pipa sbilenca e caratteriale che mi fece innamorare delle square panel.










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"Per essere perfetta le mancava solo un difetto".

Quando ancora collezionavo su un quadernetto grandi massime che per la loro struttura o per la loro intrinseca verità avrebbero dovuto ispirarmi nel mio lavoro di titolista, questa frase (di Karl Kraus) la piazzai al posto d'onore. O quantomeno la scrissi abbastanza calcata da restare incisa nella memoria anche ora che il quadernetto è da lungo tempo perduto.
E' bella nella sua struttura ma soprattutto contiene una grande verità, perlomeno una verità che è vera per me. Benché la ricerca della perfezione sia doverosa, la cialtronaggine irritante, nulla che vale si ottenga senza fatica, senza desiderio, senza cercare ossessivamente di migliorarsi, la perfezione è qualcosa di profondamente diverso dall'assenza di difetti formali. Non la puoi verificare con un compasso o con un computer. E se la prova strumentale riesce, se tutto è a posto, centrato, misurato, perfetto, è quasi certo che quello che hai davanti è qualcosa che non parla, non canta, non dice niente. Un assolo perfetto. Un quadro perfetto. Una donna perfetta. Ogni cosa, ogni nota, ogni pennellata, ogni dettaglio, proporzione, angolo al suo posto. Difficile immaginare qualcosa di più misero e di più mediocre di una "perfezione" così.
Tutto questo non l'avevo ancora messo bene a fuoco quando mio padre un giorno tornò da Noli portandosi questa panel. La prima panel che avessi mai visto. Una pipa quadrata. Mi ricordava alcune storie a fumetti ambientate in un mondo quadrato, con uova quadrate, teste quadrate. Io ero un ragazzo, la pipa non la fumavo. Ma mio padre mi parlava spesso di pipe. Mi mostrava le forme, mi spiegava perché alcune erano belle e altre no. Perché amava le Dunhill, che non avevano il bocchino orribile che lui definiva "ciucciato" tipico delle Savinelli (che pure per il resto apprezzava. Pensava che spesso fossero disegnate anche meglio). Le Dunhill avevano questo bocchino dritto, tirato. Non erano sempre e necessariamente più belle ma la loro superiorità era evidente. Costavano anche in modo irragionevole e per questo se ne permetteva poche. E poi aveva questa idea che qualcosa di raro, di prezioso, di assoluto, non andasse inflazionato. Di pipe non ne aveva tante quante ne guardava e di Dunhill tanto meno. Non ne comprava in modo compulsivo come fanno molti di noi e io per primo. Non le ordinava online e non solo perché i computer erano di là da venire. Non si metteva in casa cose che gli piacessero a metà, per un quarto, per un dettaglio, come curiosità. Quando sceglieva una pipa pensava e ripensava,  la rigirava in mano all'infinito, tornava a vederla, soppesava il suo grado di affinità, nel dubbio non la comprava. Si tratteneva credo apposta con una temperanza zen che aveva per alcune cose sì e per altre no. Per le pipe, sì. Perché alle pipe ci teneva molto.
Così un giorno tornò a casa trionfante con questa pipa. Le Dunhill che aveva erano dei mezzi cimeli, me le mostrava con orgoglio ma erano parte di un mondo in cui io ancora non esistevo, o stavo in un passeggino e avevo tutt'altri interessi. Questa era una Dunhill nuova, o meglio seminuova, presa da Noli d'occasione ma quasi infumata. Una pipa che l'aveva catturato, che gli aveva fatto fare dopo molto tempo questa follia. Non aveva mille panel. Ne aveva una sola, questa. Una cosa che amava di questa pipa quadrata era la sua personalità. Mi faceva vedere il fianco sinistro dove la sabbiatura si era mangiata un po' una faccia. Diceva che sembrava modellata con una ditata. Era un misto eccitante di perfezione e di imperfezione. Un bocchino geometrico, con angoli taglienti, tirato con precisione ossessiva, completava una testa dove non c'era una linea che fosse davvero parallela all'altra. Guardava la sua pipa e ci vedeva una potente scultura cubista, una pipa che avrebbe potuto fare Braque.
Quella pipa ipnotizzava anche me e la sua ossessione sarebbe nel tempo diventata la mia ossessione per le panel. La sera quando la fumava la guardavo e le sue linee vagamente scalene chiamavano il mio sguardo attirandolo in un gorgo. Più tardi, quando la pipa più o meno di nascosto cominciai a fumarla pure io, mi capitò anche di aspettare che se ne andasse a letto, dopo il film, per caricarmela e tirare qualche boccata, con il suo tabacco. Io avevo le mie pipette mediocri. Ma quella era la Dunhill. E col terrore che mio padre riapparisse improvvisamente dalla porta del salotto, godetti insieme a lei più di un momento di piacere clandestino.
Se avessi una pipa che mi rappresenta, se dovessi avere soltanto uno shape, quella forma sarebbe certamente la panel. E non c'è nessun dubbio che questa monomania sia nata in me ammirando all'infinito quella pipa.
Ho cercato di ricomprarmela mille volte senza riuscirci mai. Ho comprato panel di Dunhill e di altri in quantità, alcune belle, altre bellissime. Ma nessuna come questa, e non credo che il suo fascino sia solo nel fatto che era la panel di mio padre. 
A forza di guardare e spesso comprare panel ho imparato almeno una cosa, che è valida per tutte le pipe ma lo è particolarmente per questo shape, che attira verso il disastro il pipemaker privo di talento. Anzitutto la sua perfezione ideale è del tutto indefinibile. Gli angoli "giusti" non sono quelli che ti aspetteresti. Se la metti davvero in squadra e fai una testa perfettamente a 90 gradi, se prendi le misure di una panel bellissima e tenti di riprodurle uguali uguali, qualcosa ti sfuggirà sempre. Ci sono tanti modi di fare una panel fascinosa. Un po' più grande, un po' più piccola, un po' più slanciata o un po' più maschia e muscolata. Alta giusta o tendente alla pot. Entro certi limiti le idee valide possono essere molte. Ma per farla deve esserci un tagliatore di radica che di personalità abbia la sua. Può essere Gilli, può essere Bill Taylor, può essere Les Wood o un italiano emergente tra i pochi che stimo (e non tutti quelli che stimo sanno fare una bella panel). Insomma, per fare una bella quadrata ci vuole un artigiano con le palle.
Ci vuole perché la perfezione perfetta è terribilmente noiosa e per fare una panel occorre un uomo libero dall'ansia di trovare conferme. Capace di uscire da quella prigione quadrata e fare qualcosa di più, e non di meno di una forma geometricamente perfetta. La scelta della finitura può aiutare un po'. La superficie ideale della panel, secondo me, è quella sabbiata. La sabbiatura di per sé introduce quel pizzico di imponderabile, quella tensione tra quadratura e irrazionale che può soffiare l'anima dentro un oggetto. Si mangia un po' un angolo, scava col suo ditone una faccia liscia.
Penso che il ditone che scavò la panel di mio padre sia stato quello di dio, o meglio quello di Bill Taylor, che parlando di pipe è un po' la stessa cosa. Quando la sua panel uscì dalla fabbrica di Dunhill, Taylor lavorava ancora in prima linea e non credo che nessun altro avrebbe potuto fare e ancora di più autorizzare e marcare come Dunhill, a prezzo di lusso, una pipa che davvero ha ben poco di formalmente perfetto. Guardando la pipa con gli occhi dell'uggioso acquirente da internet di oggi, che apre il suo pacco con il terrore di essere stato gabbato, o del mediocre artigianello con riga, cad e compasso, c'è da restare allucinati. Negli angoli delle quattro facce della testa non se ne trova uno uguale. Il cannello è più rastremato da un lato che dall'altro, e nessun delle due linee è dritta (non solo per colpa della sabbiatura). La faccia superiore del cannello pende un po' da una parte in una sezione che non ha nulla di perfettamente quadrato. La testa in confronto all'insieme bocchino/cannello tende anche impercettibilmente al piccolo.
Nulla di tutto questo è stato chiaramente voluto. E' uscito così, dalla lima di un uomo per cui la forma e la radica non erano nemici, fonti di ansia, pieni di trappole e di pericoli da disinnescare, ma erano un mezzo di espressione, a cui dare forma senza paura. Un autore, per cui il carattere di un oggetto era tutto e la verifica numerologica nulla. Un uomo che sapeva dove andare, in modo così deciso che anche il caso ha partecipato un po' alla sua creazione. 
Penso davvero che pochi, se non Bill Taylor, avrebbero osato mettere nelle mani del rappresentante una pipa così, convinti che non sarebbe tornata indietro e che qualcuno vedendola se ne sarebbe innamorato. Credo che tra le pipe che ho avuto in mano questa sia quella che spinge al grado più estremo la proporzione di imperfezione che la vera perfezione deve contenere.
Mio padre che con le sue ditone spingeva, scavava, strisciava, e alle volte chiamava il caso, l'acqua, il colore a cooperare con lui, quella pipa la capì al volo.
Più modestamente, mi illudo di averla capita anch'io.