sabato 29 dicembre 2012

Mauro Gilli: il passaggio a Nord-Ovest



Due Gilli LB, di qualche annetto fa. Nella scala di Mauro sono marcate con due stelle, il che ne fa due belle chiare di tutto rispetto. Quando posso, e sono tranquillo che mia moglie non legga l'estratto-conto, mi piace ordinare le pipe a coppie, come pistole da duello, con solo leggere differenze. In questo caso il bocchino di ambra coltivata con vera oro (sopra) e di bufalo indiano con vera argento (sotto). Sono tra i pezzi più belli della mia minicollezione di LB (large billiard). Uno shape classico Dunhill, rivisitato da Savinelli con la famosa 101.

Flashback. Vedo mio padre costernato, seduto alla sua scrivania. Ha tra le mani una piccola Dunhill curva. Io sono lì con lui, nel suo studio. Non so bene quanti anni io abbia (sono stato lì molte volte per molti anni) ma certamente non ho minimamente l'età necessaria ad interessarmi personalmente a come debba essere fatta e come si fumi una pipa. Tutto ciò per lui non è minimamente un problema. 

La sua idea non è mai stata che i genitori debbano trovare argomenti e linguaggi per mettersi in sintonia con i figli. Sono i figli che, quando e se ne saranno in grado, avranno facoltà di mettersi in contatto con gli argomenti e i linguaggi degli adulti. Lui comunque è sempre lì. E non sarà certo l'idea che i suoi figli siano piccoli a trattenerlo dallo spiegare loro perché un bassorilievo sia degno di essere ammirato, perché Cassandre, Konecsni o Savignac siano così grandi. Perché la libertà sia un bene prezioso, concreto, che si può toccare, vedere, annusare. O per venire un po' più vicino al topic di questo blog, perché il bocchino di una Dunhill, tirato dritto quando è dritto o, nel caso sia curvo, piegato armoniosamente secondo una parabola che esalta la forma della pipa, sia così immensamente superiore a certe ciabatte sformate molliccie e di forma "ciucciata" (il termine è suo e identifica quei bocchini conici che si restringono non regolarmente, ma con una curva improvvisa), che pure certe sue pipe montano. Quando sarà il momento capiremo. E io, in quel momento, sto capendo.

Sto capendo che una delle sue Dunhill è stata straziata da un riparatore al quale l'aveva affidata con eccessiva fiducia. Verso il mondo in cui vive mio padre continua ad avere l'ingenuità innocente del profugo.  Il nome del negozio, la sua insegna secolare, la vetrina su una bella via centrale, i modi cortesi, l'aspetto competente lo fanno sentire sicuro che il suo bocchino consumato verrà semplicemente sostituito con un nuovo bocchino Dunhill, una specie di ricambio originale che farà tornare la sua pipa esattamente com'era quando l'ha comprata, ormai diversi anni fa. Non ha dubbi, non ha diffidenze. Non pensa di poter avere a che fare con qualche improvvisato e approssimativo cialtrone, che maschera l'incompetenza con il funzionalismo (o con l'ideologia), come quelli che ha lasciato per sempre alle spalle, oltre le barriere di filo spinato.
La profonda costernazione in cui lo vedo, con la sua Dunhill straziata tra le mani, rappresenta la caduta anche di questa piccola isola di certezza. Il bocchino nuovo, sì, ha il puntino bianco. Ma la sua curva è sbagliata, il raccordo col cannello non ha nulla di perfetto. La pipa non è più, non potrà più essere, quella di prima. Tutto l'insieme grida falsità e tradimento, e io in quel momento sto capendo quel dramma in miniatura, pur non avendo mai avuto nessuna competenza sul come debba essere fatta una pipa.

Quel bocchino tremendo nella sua inadeguatezza ha rappresentato per me un ricordo incancellabile. Per molti anni ho pensato che un bocchino su una pipa, e specialmente su una bella pipa, non si potesse assolutamente sostituire con ragionevoli speranze di successo. Il bocchino e la pipa nascono insieme e ogni tentativo di riprodurne a posteriori il misterioso equilibrio originario è destinato al fallimento. Così mio padre aveva razionalizzato il disastro della sua Dunhill e questo avevo assunto come dato di fatto, sia quando la pipa non la fumavo ancora che quando ho cominciato ad averne. Ci sono voluti molti anni, e forse l'improntitudine che ad una certa età porta a gettarsi alle spalle le certezze acquisite dai padri, per rimettere in discussione questo principio. Ero oltre le prime pipe, già in una fase in cui si acquista anche un po' per passione ed avventura. Ed è stato un indaffarato Noli, in galleria, forse troppo indaffarato per occuparsi personalmente della questione, a parlarmi di un artigiano di Torino che certamente poteva restituire la vita ad una disgraziata Dunhill che avevo comprato imprudentemente su ebay (allora appena nata), senza rendermi conto che poco era rimasto di sano, oltre alla testa. 
Non avevo una pipa da rimpiangere, solo un rottame tra le mani, e anche questo mi ha aiutato a prendere il coraggio di ritentare la strada sulla quale le aspettative di mio padre erano state così duramente tradite. Tentai, ma senza grandi speranze e senza fidarmi troppo, la via di Mauro Gilli. E Mauro Gilli fece il miracolo. 
Quando (dopo molti mesi) la pipa riapparve tra le mie mani con il suo bocchino nuovo, in tutto e per tutto fantastico come quello che la pipa doveva avere avuto da nuova, forse persino migliore, perfettamente armonico,  perfettamente tirato come mio padre mi aveva insegnato che un bocchino Dunhill dovesse essere, fu come avere trovato il passaggio a Nord-Ovest.
La feci vedere a mio padre, con qualche timore che lui ci trovasse difetti che io ancora non avevo visto. Ne rimase ammirato, al punto che riprese dallo scaffale la sua vecchia Dunhill, rimasta per anni praticamente infumata. Facemmo insieme una scatola di pipe da sistemare. Io un po' delle mie Savinelli che nel frattempo avevano esaurito la corsa dei loro poveri bocchini originali. Lui qualcosa di suo, tra cui una splendida e fragile Castello a cui aveva crepato il cannello e che non aveva più osato riparare, preferendo tenerla insieme con lo scotch. Gilli a quel tempo lavorava come un ossesso, senza nemmeno l'aiuto di suo nipote Simone, che oggi sta crescendo nella sua bottega. Dopo un'attesa quasi infinita di mesi, mesi e mesi, le pipe tornarono, senza essere nulla di meno del meglio che si potesse sperare. Le Savinelli sono nei link sopra, da vedere. La Dunhill di mio padre era tornata, finalmente, una Dunhill. La Castello aveva una vera oro a filo che sembrava nata con lei. La speranza che il grande negozio aveva tradito era stata restaurata in uno scantinato di Torino, da un uomo che non avevo mai visto né sentito, se non per telefono.
Su una cosa ero comunque sicuro che mio padre avesse ragione: fare un bocchino Dunhill nuovo su una pipa vecchia era l'impresa più difficile con cui un artigiano della pipa si potesse misurare. Un uomo capace di fare questo con la maestria di Gilli, non avrebbe certo avuto problemi a fare una pipa intera, almeno in teoria. A quei tempi lo sentivo spesso al telefono, con la scusa di avere notizie delle mie pipe e in realtà per sapere quali idee e novità ci fossero nel suo laboratorio. Un giorno lo incontrai anche a pranzo con la moglie, in un ristorante del centro e l'impressione di un uomo semplice, onesto, geniale e straordinario si fissò in me in modo definitivo. Mi venne voglia di avere una pipa fatta interamente da lui. Non sapevo decidere se volevo il bocchino in ambra (che avevo visto nelle vetrine di Al Pascià) o quello in corno duro indiano. E così, appena ebbi la possibilità economica, ordinai le due pipe, ovvero le due chubby billiard (Gilli le chiamava Maigret), che si vedono sopra. Ne uscirono, ovviamente, due capolavori assoluti. Qualche anno dopo, in occasione di qualche altra riparazione, mi feci fare anche una square panel, un'altra delle mie forme. Tre pipe che ho fumato per anni con immensa soddisfazione. 

La pipa, come tutte le passioni, ha i suoi momenti brucianti e i periodi più quieti, abitudinari. E' passato molto tempo senza che sentissi più il bisogno di comprare nulla di nuovo, e quindi senza incappare in quegli incidenti che rendono prezioso l'intervento di Gilli. Anche Mauro ha avuto le sue traversie. Ma da quando è tornato a lavorare a tempo pieno, anch'io per qualche sintonia ho sentito il bisogno di aggiungere nuovo materiale al mio debordande blob pipesco.
Da circa un anno possiedo anche la liverpool che si vede sotto, la mia prima Gilli curata a olio. Ancora più recentemente, ho visitato insieme a mio cugino Andrea il laboratorio di Mauro e mi sono portato a casa questa canadese. La mia prima Gilli con bocchino in metacrilato. E certamente non me ne sono pentito. Altre pipe, non meno belle, che prima o poi metterò su queste pagine, sono già al lavoro. Quella di Gilli è una febbre contagiosa, che si aggrava in chi l'ha già e si trasmette facilmente per contatto. Ora che il web è diventato uno strumento con cui gli appassionati si scambiano idee ed impressioni sui nuovi acquisti, vedo che la presenza delle pipe di Gilli è in forte accelerazione.
Gilli è il tipo di persona che insieme a qualunque cosa spedisca e faccia pagare, sulla grande pipa come sul lavoretto, ti fa trovare una fattura, senza bisogno che nessuno gliela chieda. Effettivamente, nelle cose che fa, oltre alla straordinaria abilità manuale e al perfezionismo esasperato, si sente proprio questa immensa integrità morale. La pipa di ginepro Paronelli, che mi è esplosa dopo una fumata, è ancora nelle sue mani. E sono certo che non tornerà finché Mauro non avrà trovato un modo di ripararla che non rischi di creare una nuova delusione. 
Ci vuole un uomo duro per fare un pollo morbido, diceva un famoso slogan americano. Per riparare qualcosa di più grande e di più doloroso di un bocchino spezzato, ci voleva un uomo come Mauro Gilli.




 
Una delle mie ultime Gilli (per ora). Una liverpool in gruppo 4/5 (14cm x 48mm x foro 19mm x solo 38 gr di peso).
Pipa deliziosa, anche grazie all'oil curing che da qualche tempo Gilli offre a richiesta sulle sue pipe.
Il dente, assolutamente meraviglioso. Una delle firme di Mauro.

mercoledì 19 dicembre 2012

Mac Baren Golden Blend al cartoccio

Ricetta: prendete una scatola di tabacco, rosolatela in forno a 85° per cinque ore, avvolta in foglio di alluminio. Gustate  freddo, nella vostra pipa.


Non ho ancora grande esperienza con questa tecnica ma leggendo i commenti dell'amico gmroberto mi sono fatto l'idea che valesse la pena provare con questo Burley. In effetti ne valeva la pena.


La scienza è un'attività avventurosa, raramente compresa dai contemporanei. Ne ho avuto la prova il giorno in cui un paio di amici, ispirati da questo autorevolissimo articolo di fumeurs de pipe, hanno presentato su flp i risultati di un esperimento: il passaggio al forno del tabacco.
L'idea, con ogni evidenza, non ha nulla di balzano. Tutto il tabacco che fumiamo è stato sottoposto a trattamenti termici in qualche fase della sua vita. Ed è ben noto che diversi trattamenti producono diversi risultati. Molto in generale, un tabacco più "cotto" tende ad essere più morbido, cedendo qualcosa sul lato della fragranza. Il confronto tra Best Brown Flake e Full Virginia Flake, grosso modo dà un'idea.

In questo caso non si tratta di riprodurre temperature e pressioni di fabbrica, quanto di dare una piccola spinta termica di ritocco. A leggere l'articolo di fumeurs de pipe, sembra che sia utile per ammorbidire certe asprezze, arrotondare il gusto, e arrivare per una via diversa al genere di effetto che ci si aspetta, più o meno,  dall'invecchiamento. La tecnica vanta padrini nobilissimi, come Fred Hanna (che ha inserito la tecnica nel suo ultimo libro dedicato alla ricerca della fumata perfetta) e il venerabile Gregory Pease, che pare sperimentasse con forni e confezioni di tabacco ai vecchi tempi del suo primo impiego da Drucquer (grande tabaccaio californiano ormai scomparso). Gli sperimentatori avevano seguito procedimenti rigorosi e presentavano seriamente i risultati delle loro prove di assaggio, prima e dopo.

Ma l'uditorio al quale la tecnica è stata presentata, non si è mostrato particolarmente ricettivo per le novità. L'idea è stata in vario modo derisa, partendo dal robusto assunto che "se fosse utile i fabbricanti di tabacco lo farebbero già". Qualcuno temeva avvelenamenti. Altri l'esplosione delle scatole di tabacco  e del forno, con possibili danni e persone e cose. L'invenzione della macchina a vapore dubito abbia creato più diffidenza e panico dell'idea di scaldare a 85° per cinque ore una scatola di tabacco. Citare gli illustri padrini e l'indubbia autorevolezza degli articoli nel quale la tecnica era presentata, e testata non si è dimostrato di nessun aiuto nel penetrare la corazza di diffidenza degli utenti del forum.

Pazienza. Il destino degli innovatori è quello di essere presi a pernacchie dai loro uditori. Ma talvolta anche quello di godere in misura notevole dei risultati delle proprie intuizioni. Consapevole di tutto ciò, fiducioso nel buon gusto dei miei amici (e anche in quello di Fred Hanna e Gregory Pease), ho cercato tra i tabacchi alla mano, pronti da fumare, una scatola adatta a tentare l'avventura.

Il Golden Blend Mac Baren è (soprattutto) Burley, un tabacco di base che in passato a me non ha mai interessato e che di solito mi irritava quando lo scoprivo ad allungare il brodo nelle miscele. Di Golden Blend comprai una busta, in omaggio ai gusti di un amico. Non mi è piaciuto. L'ho trovato aspro, tagliente, noioso e anche un po' pizzicante sulla lingua. Gli ho anche aggiunto un po' di Golden Glow, sperando di ammorbirdirlo un po'. Ma sono solo riuscito a sprecare un po' (e fortunatamente solo un po') di uno dei migliori Virginia che una pipa possa avere il privilegio di incontrare. Il Golden Blend è rimasto sordo ad ogni invito a farsi migliore. Mi è piaciuto talmente poco che, quando mi hanno assicurato che quello in scatola da 100gr è molto più buono, pur senza molta convinzione, ne ho ricomprata un'altra grossa scatola con l'idea di dargli un'altra chance. L'ultima.
Idea generosa, forse, ma anche imprudente. Tanto che il Golden Blend su cui avevo deciso di ributtarmi subito sfruttando il momento, è rimasto in un cassetto qualche mese. Quando ormai disperavo  di avere il coraggio di aprirlo, ecco che la cottura al forno è arrivata a fagiolo.

Tra gli esperimenti che Gaetano assicurava essere meglio riusciti, c'era proprio quello col Golden Blend, e così ne ho approfittato per darmi una ragione per tornare sui miei passi, facendo ciò che uno scienziato non dovrebbe mai fare: due esperimenti allo stesso tempo. Il Golden Blend in scatola (invece che in busta); Il Golden Blend al forno (invece che crudo). Avendo mal calcolato i tempi di partenza, un venerdì sera mi sono trovato ad aspettare davanti al forno quando erano ormai quasi le due di notte. Ma la mattina dopo, quando ho aperto la mia scatola, ho ringraziato di aver tenuto duro per amore della scienza. Il Mac Baren che al naturale mi era sembrato privo di qualunque attrattiva, già appena svitato il coperchio mandava un profumo invitante con tracce di tostatura. Ne ho fumata una carica con il caffé e il profumo a crudo è stato confermato da un sentore di crosta di pane che ho trovato piacevolissimo e che certamente era del tutto assente nell'originale. Che sia stata la tostatura o il contenitore metallico, il tabacco risultava anche molto meno angoloso di quello che avevo fumato in busta. Non aggrediva, non grattava, non bruciava. Ma anzi avvolgeva il profumo di pane appena uscito dal forno con una certa morbidezza. Finita la mia pipa, abbastanza incredibilmente, mi sono trovato a desiderare un'altra carica di Golden Blend nel giro di poche ore.

A questo punto l'ho fumato abbastanza per poter dire che il nuovo Golden Blend al cartoccio risulta un tabacco gustoso per tutti i momenti in cui si vuol fumare qualcosa di sobrio e semplice, non troppo invadente, non troppo esigente con i sensi. Un tabacco da riposo, da fumare con piacere, non da degustare e centellinare. Nemmeno da miscelare, per quanto mi riguarda. 

Una vittoria della curiosità informata e della scienza sull'abitutine, e persino sull'esperienza.


Il Golden Blend Mac Baren si presenta un po' scurito, manda un delizioso profumo di crosta di pane e, una volta acceso si dimostra gustoso e piacevole. Non mi era mai successo di avere voglia di fumare del Golden Blend. Col Golden Blend al cartoccio ho provato anche questa esperienza.



sabato 15 dicembre 2012

La pipa dello zio

La pipa dello zio Alberto.  Una "Real Briar" che a giudicare dalla losanga sul bocchino potrebbe essere una Brebbia


Poche persone sono state più diverse e più simili di mio zio e di mio padre.
Due mondi agli antipodi: uno di solido ceppo tosco-piemontese, l'altro nato da un ibrido e instabile brodo primordiale multinazionale; uno artista, l'altro uomo di azienda e di banca; uno pratico e pianificatore, l'altro quasi sempre perso oltre i confini del suo foglio di carta. Eppure due uomini profondamente uniti da qualcosa che non saprei come chiamare se non solidità caratteriale. Che si guardavano da due lati opposti dello specchio e si riconoscevano.
Tra le cose che li univano (ma anche per certi versi li differenziavano) c'erano la buona cucina, il gusto per il vino e le pipe. Quando le nostre famiglie si incontravano, si era sicuri che in mezzo ci sarebbe stata una tavola, e una di quelle intorno alla quali vale la pena stare.
In effetti ho molte zie. Ma ce n'è solo una che abbia mai rivaleggiato con mia madre nella capacità di allestire un pranzo, e specialmente un pranzo festivo. Anzi devo dire che i pranzi delle feste erano veramente la specialità della zia e che l'incrocio di tradizioni piemontesi, toscane e ungheresi produceva risultati portentosi, imprevedibili, inimmaginabili. Sia mio padre che mio zio (e questo era un altro aspetto che li univa) nella cucina delle loro mogli hanno avuto il ruolo che in un teatro spetterebbe a un direttore artistico. Ricordavano, immaginavano, proponevano, talvolta pretendevano. Trovavano fonti, rivedevano i copioni, allestivano il cartellone della stagione. Comunicavano entusiasmo, e non facevano mancare alle loro artiste il supporto di un esigente spirito critico. Quando salivo in macchina per andare a casa degli zii ero pronto a vedere e assaggiare cose che non avrei mai trovato altrove. Lì, ad esempio, scoprii il tramezzo. Una portata aggiuntiva, generalmente una qualche specie di trionfo a base vegetale, che segnava il confine tra il primo e il secondo, non essendo nessuno dei due ma accompagnando i commensali dall'uno all'altro. Mia zia sapeva fare una delle poche cose in cui mia mamma non è mai ruscita: il rétes (una specie di strudel ungherese di pasta sottilissima) e un giorno ha anche cercato di insegnarmelo. Erano giornate meravigliose quelle delle feste. E non credo che me lo sembrino solo adesso che le rivivo nella memoria. Eravamo ragazzini. Non avevamo né game boy né telefonini a separarci dalle storie e dalla chiacchiere dei grandi. Ed erano storie fantastiche anche perché venivano da mondi diversissimi da quello in cui vivevamo noi. Dopo pranzo, seduti al tavolo da caffé, papà e lo zio accendevano sempre le loro pipe. Io non immaginavo nemmeno che un giorno ne avrei fumata una ma mi divertivo un sacco a guardare quelle dello zio. Erano pipe come quelle di papà, ma erano anche completamente diverse. Mio padre era un artista che amava il design rigoroso, severo, le sue pipe erano classiche appena animate da un accento creativo che vibrava sotto pelle. Lo zio invece aveva anche qualche pipa veramente strana: di forma mai vista, col coperchietto... e specialmente una che si è fissata nella mia memoria in modo indelebile. Una specie di calamita degli occhi: una pipa quasi arancione, né liscia né di un rugoso normale, con delle specie di pennellate nere. Papà e lo zio ogni tanto ci scherzavano sopra. Me la ricordo appoggiata tra le altre sul portapipe, o alle volte sul tavolo. Dovunque fosse la pipa dello zio, mentre i grandi si scambiavano tabacchi, fumavano, bevevano caffé o qualche liquore, i miei occhi la cercavano e la trovavano. Qualche volta l'ho persino maneggiata.

L'ho rivista circa un anno fa nella collezione di mio cugino Andrea, a cui sono passate tutte le pipe del suo babbo. E' stato un giorno in cui, dopo molti anni, ci siamo ritrovati ancora, per un pranzo con gli zii e con la mamma. E gli ho raccontato esattamente questo. Alla fine del pranzo, con mia grande sorpresa, me l'hanno regalata.
E' una delle pipe che tengo sempre in vista. Ma non credo che la fumerò mai. E' la pipa dello zio. Ogni volta che la riprendo in mano, la rivedo a casa sua. E le voci, le immagini, le sensazioni di quei momenti tornano per un attimo a vivere. Non è solo una pipa. E' un oggetto magico.

O forse una madeleine.

martedì 11 dicembre 2012

Un'altra magia di Mauro Gilli

La mia vecchia Calabash di schiuma (ne parlo in questo post), con il nuovo bocchino in cumberland "miele" di Mauro Gilli.

L'infelice pipa col suo orrendo bocchino originale. 

Una delle mie idee fisse in campo di pipe è che quasi tutto si capisca dal bocchino. Deve avermela comunicata mia nonna che in altri tempi aveva la stessa idea a proposito di scarpe e di uomini. Diceva che tutto sommato rimpannucciarsi in un cappotto o in una giacca accettabile non era così difficile. Ma se volevi capire con chi avevi a che fare, la cosa da fare era guardargli le scarpe.
Una scarpa decorosa e ragionevolmente pulita ti diceva che avevi a che fare con una persona dignitosa, anche se il vestito non era di sartoria. Una bella scarpa ma sporca e malcurata ti parlava di un abbiente cialtrone. Una scarpa dozzinale ma combinata con un vestito pretenzioso, rivelava che la persona davanti a te cercava di sembrare qualcosa che non era. 

Poi sono arrivate le sneakers e tutto è diventato più difficile.

A molte pipe, invece, continua a succedere così. Te le vedi sotto le luci, in tabaccheria, lucidate e guarnite di cartellini del prezzo di tutto rispetto. Ma un'occhiata al bocchino stampato e "ciucciato" separa immediatamente, inevitabilmente, la pretenziosa pipa senza sostanza da quella che giustifica il suo prezzo con una autentica ricerca di qualità (ho scritto in proposito, in questo post sulle Dunhill ma c'è anche molto altro: balzano alla mente Musicò e Gigliucci).

A patto di avere una pipa dalla testa quantomeno decente, di averci speso una cifra ragionevole e di essere arrivati a buon punto del primo scadente terminale prestampato, possono esserci casi in cui è ragionevole pensare a un nuovo bocchino su misura, fatto a mano con straordinaria abilità e con materiali di qualità, da un artigiano che ha i mezzi e, vorrei dire, la cultura che sono mancati al primo frettoloso assemblatore commerciale. A saper leggere la pipa, se ne possono prevedere gli effetti.

Di pipe così ne ho già parlato qui e qui. Stavolta le cure di Mauro e Simone Gilli sono toccate a una calabash in schiuma di livello accettabile ma come troppe sue consorelle turche, appesa a un bocchino orribile e dozzinale che mi ha sempre impedito di apprezzarla. Stavolta da Gilli ci sono andato di persona (cadendo inevitabilmente nella rete di alcune sue pipe a cui non ho potuto resistere) e ho scelto per la mia schiuma un nuovo cumberland che Simone mi aveva già mostrato per email. E' un colore abbastanza scuro, ma che loro chiamano "miele". Più del verde che avevo in mente, più del blu che ho destinato a due nuove square panel ordinate al momento, il miele mi sembrava fatto per esaltare la mia schiuma e tirarle fuori l'acuto che il vecchio tappo giallo le aveva sempre impedito.

Il risultato è ritratto in alto. Ed è più di quanto osassi sperare. La curvatura aggraziata ed elegante del cumberland esalta la perfezione con cui il bocchino si restringe dall'innesto al dente (che di per sé è un altro capolavoro). I toni screziati del cumberland riprendono i bruni che il culottage ha cominciato a sviluppare. Il brutto anattrocolo è diventato, finalmente, cigno.

La pipa è rimasta una schiuma discreta, senza enormi pretese. Se fosse una persona, sarebbe un uomo vestito di maglione e pantaloni di fustagno. Ma cambiargli le scarpe di similpelle traforate con un paio di Church's cucite a mano, ne ha fatto una persona completamente diversa. Non solo nella percezione, ma anche (almeno secondo mia nonna) nella sostanza.



Impietoso confronto tra i due manufatti: quello di Gilli dalla curvatura perfetta e armoniosa e lo sgraziato becco in plasticaccia gialla che ha guastato la mia schiuma fino ad oggi.

Il dente tipico di Mauro Gilli: commovente nella sua bellezza, ineguagliabile nel confort.

Il classico dente da pipa giocattolo, un po' consunto (ma non certo peggiorato) da qualche anno di uso. 

 
La mia calabash, vista da un altro punto di vista. Per un ritratto con il vecchio bocchino si può vedere questo post





martedì 4 dicembre 2012

Happy End

McClelland 2015 (Flake di Virginia-Perique 16 oz), McClelland Blended Turkish Ribbon (8 oz), McClellend Eastern Carolina Ribbon (8oz)

Quelli che ammiro, appena usciti dalla loro scatola di cartona USPS sono tre meravigliosi tabacchi in bulk McClelland. Due sono tabacchi da miscela di qualità eccelsa. Ne ho ancora una buona scorta ma valeva comunque la pena rinforzarla. L'ultimo è il McClelland 2015, commovente Virginia-Perique di cui parlo in altro post. Ultimamente ne ho aperta una scatola conservata da oltre dieci anni nel mio caveau. L'ultima. Con un paio di lustri di ritardo e seguendo la regola "apri uno, compra due", appresa molto tempo fa su Pipes & Tobacco Magazine,  ho quindi deciso di procurarmi un rimpiazzo.

Nessuno di loro sarebbe qui, oggi, se tutto fosse andato secondo i piani. Approfittando di una vacanza dei miei suoceri, li avevo indirizzati da De La Concha, a New York. Sogno da anni di mettere le mani su un po' di Turkish Delight, e questa sembrava finalmente l'occasione giusta. 
Purtroppo è andata male anche stavolta. I suoceri sono stati rapiti da un vecchio amico di famiglia, che appena messo piede a terra li ha condotti in un giro a piedi, sfiancante e mozzafiato per tutta la Big Apple. Spietato, li ha trascinati da nord a sud senza lasciare loro tempo di rifiatare. L'orologio girava, le miglia scorrevano. Esaurite le energie e il tempo, tutto la sezione "shopping" del loro viaggio è andata a farsi benedire, e con essa anche il mio rifornimento tabagifero. 
La notizia, pur datami con tatto, sulle prime mi ha lasciato affranto e senza parole. Svuotato. Poi ho deciso di tentare il tutto per tutto e dare al viaggio dei suoceri una seconda chance.

Ho strappato a mia moglie una lista di recapiti, sono balzato sulla tastiera e dal sito di 4noggins ho ordinato quanto si vede sopra. Copiando febbrilmente l'indirizzo, ho indirizzato il pacco al bed and breakfast finale del loro viaggio. Quattro giorni dopo, a Philadephia. In Italia sarebbe stata una scommessa impossibile. Ma dell'efficienza di 4noggins (che promette di spedire in 24 ore) e della  perizia dell'USPS sentivo di potermi fidare. Se tutto fosse andato bene, il postino si sarebbe presentato appena in tempo, qualche ora prima che il taxi partisse per l'aeroporto. E così è stato.

Happy End.

Per tutti, in America, c'è una second chance. E io mi preparo a fumermela, entro qualche anno.


venerdì 30 novembre 2012

Fornelli da flake 2: la prince

Amorelli una stella,  foro 17 x 30 

A voler prendere le cose sul piano squisitamente tecnico, la Prince of Wales avrebbe dovuto essere la prima delle pipe di questa serie. Se è vero che per il flake una pipa piccola è meglio di una media o grande e che un fornello basso è più facile da approcciare di uno medio o alto, allora l'idenkit della Prince sembrerebbe già disegnato.

La Prince è una pipa che anche quando è grande, è piccola. La Shell gruppo 4 raffigurata qui sotto, per esempio, per essere una prince è anche piuttosto robusta. Ma pur non intendomi molto di calcoli di geometria dei solidi (o meglio, essendo troppo pigro per andare a caccia delle vecchie formule) sarei disposto a scommettere che il volume interno è minore di una billiard gruppo 3.


Dunhill Shell FET Gruppo 4 (1971),  foro 20 x 33  

Figuriamoci poi quando la prince è piccola, come nel caso dell'Amorelli più in alto, che apre questo post, e che nelle sue dimensioni minutissime, è una delle più squisite bruciatrici di Virginia che possieda. Se ho dedicato alla prince solo la seconda puntata è soltanto perché la Prince è una pipa un po' eccentrica, che non a tutti piace e che non molti possiedono. Anch'io, per averne una, ho dovuto aspettare che me la regalasse mia moglie (è la Dunhill root, la terza qui in basso). In mezzo a un espositore o disposte sul feltro verde, pipe più robuste tendono a primeggiare e la pur gradevole testa tonda mi aveva sempre lasciato prima un senso di insufficienza, e di insicurezza, il timore che non fosse una pipa proprio vera, che fosse un mezzo giocattolo che sul più bello mi avrebbe lasciato a mezzo.  C'è voluto il gusto di una donna per aggiungerla alla mia scuderia. 
Avendola, mi sono reso conto che anche con un normale tabacco in ribbon, c'è da fumare più che a sufficienza. Forse non sarà la fumata ideale dopo un pranzo pantagruelico. Ma come seconda pipa della sera ha trovato il suo posto. E' pero cominciando a fumare i flake che ho scoperto nella prince una forma ideale. L'interno del "cilindro" è del tipo che un motorista definirebbe "superquadro": un tipo di assetto adatto alle alte prestazioni, in cui la corsa del cilindro è uguale o più breve del passo della testa. Con questa configurazione, a quanto pare, si riesce a cavare il massimo non solo dalle benzine ad alto numero di ottano ma anche dalla talvolta bizzosa compressione del flake di Virginia. Nel fornello superquadro i grossi pezzi di flake disposti sul fondo riescono ad allargarsi minimizzando il rischio di intoppamento anche se il caricamento è stato meno che ottimale. Con la breve corsa della prince raramente sperimento i caricamenti virtuosistici con il flake ripiegato in vari tipi di origami. Volendo occorrerebbe munirsi di forbicine e tagliare preventivamente la fetta ma anche in questo caso avrei qualche preoccupazione sulla bontà del risultato. Io invece spezzo la fetta grossolanamente, metto i pezzi grossi sul fondo e copro con un leggero strato molto più sbriciolato che accoglie la scintilla mettendo in moto la combustione. 


Dunhill Root 31071 Gruppo 3 (1979),  foro 17 x 30  

Carica di un buon flake, la prince offre a chi la fuma una gioia tutt'altro che parziale. La breve altezza del fornello è fatta per semplificare la vita: la brace non dovrà percorrere una lunga strada per arrivare in fondo. Ma bruciando con lentezza esasperante, a fil di fumo, come il Virginia deve essere trattato, riempirà lungamente la serata dei suoi profumi. Un fornello basso non concentra forza e sapore nella seconda parte il che è, in certi casi, un vantaggio. Un virginia molto forte, magari appartenente alla categoria dei "virginia rafforzati" non passerà mai il livello di guardia e raramente lascerà a corto di energie nella seconda parte del fornello. Un virginia biondo e fresco resterà fragrante e fiorito dall'inizio alla fine. Fumare nella prince non è un'esperienza psichedelica e introspettiva ma un piacere spensierato, che permette di gustare il tabacco nella sua schietta verità. Se qualcuno amasse i virginia aromatizzati, che talvolta possono risultare stucchevoli, specialmente quando si concentrano e si sovraccaricano, anche in questo caso la prince è un medium ideale.

Può essere che una prince giaccia nella vostra rastrelliera, incompiuta, alla ricerca del suo tabacco ideale. Provate a caricarla di flake e un po' alla volta, fumata dopo fumata, sembrerà rinascere. O può essere che siate alla ricerca di una scusa per aggiungere alla vostra collezione una pipa che non avevate mai pensato di comprare prima. Una pipa da dedicare ai flake e che non sarebbe davvero giusta con nessun altro tipo di tabacco.

Ecco, forse, quella pipa è proprio una eccentrica ed elegantissima prince.


Delle serie di post su come e dove fumare flake fanno parte

Caricare un broken flake 
Fornelli da flake 1: La pot
Fornelli da flake 2: La prince 
Fornelli da flake 3: Dublin, zulu fornelli conici

martedì 27 novembre 2012

Kendal Flake (flavoured)

La confezione di Gawith & Hoggarth, che viene dai primi tempu in cui Synjeco iniziò ad importarlo, in Svizzera. Da ciò probabilmente la grafia errata di un marchio a quei tempi non ancora familiare.


Ho raccontato in altri post della mia avventura col primo, vecchio sampler di Gawith & Hoggart, la marca cugina di Samuel Gawith. Ad esempio qui e qui. Fu, in sostanza, una delusione cocente, che ci avrei messo anni per metabolizzare e in qualche modo ripensare.
I molti flake appena odorati che sono rimasti dormienti in questi tredici anni, oltre che sospetti e ostili, erano per me come i gattini della celebre metafora notturna: tutti, più o meno, bigi. Diversi, ma difficili da distinguere nelle loro individualità, come i cinesini all'occhio di chi non ne abbia mai incontrato uno.
Pur avendo evoluto il mio gusto in misura sufficiente da cominciare ad apprezzare il genere, devo dire che questa sensazione di una forte unità tra i prodotti della marca non si è modificata, se non dopo recentissimi assaggi di prodotti molto eterodossi, come il Louisiana Flake (uno dei pochi prodotti della Casa arricchito di Perique e privo dell'onnipresente "Kendal Scent").
Nella cucciolata più tradizionale, il Kendal Flake (in versione flavored), che ho aperto e rapidamente concluso in pochi giorni rappresenta un gattino un po' meno bigio degli altri. Per cominciare, manca della nota di fondo fire cured, ovvero di quel supplemento di forza delle volte un po' brutale che colloca la gran parte dei Gawith & Hoggart nella categoria dei "working class flakes", tabacchi di gusto amabilmente proletario, fatti per gente che bada al sodo e che chiede al suo tabacco una robusta spinta nicotinica per saltare in scioltezza da una birra scura all'altra.
Anche il Kendal Flake è un Virginia arricchito di altre componenti, ma in questo caso al posto della foglia scura dalle note affumicate, il condimento è costituito da Burley. Un aggiunta più gentile, che ha l'obbiettivo (pienamente raggiunto) di smorzare la punta incendiaria del Virginia, creando un flake che si carica e si fuma senza troppe preoccupazioni per la cottura della lingua. La nota di Kendal Scent è presente ma solo in sottofondo,  forse anche grazie all'invecchiamento prolungato.
Il Kendal Flake è dolce, come è giusto aspettarsi da un Virginia in origine prevalentemente chiaro (che gli anni hanno reso più profondo e maturo), ma si tratta di una dolcezza smorzata da una cornice sobria e seria che a me ricorda i toni del cuoio, più che la noce (generalmente associata al Burley).  E' un interessante incontro tra lo spirito ruvido di un tabacco inglese con pochi fronzoli e un po' di confortevole gentilezza americana. 
Un gatto di Kendal un po' particolare, che anche un osservatore distratto riuscirà a riconoscere dal particolarissimo accento.
 
 

sabato 24 novembre 2012

Affare o no?



 
Da fumarelapipa.com: Una Dunhill Root presa su ebay e riportata alla vita da un utente. E' stata "abbassata" pesantemente a causa della bruciatura del rim, il bocchino è un rimpiazzo di scarsa qualità, il terminale è avvolto da nastro nero per prevenire i segni di denti. 



Vedo su fumare la pipa.com (thread Dunhill, post 90) la pipa di cui alla foto sopra.
Fa parte di un lotto messo in vendita su ebay.co.uk, evidentemente appartenuto ad un inglese che univa due caratteristiche: un portafoglio ben fornito e uno sviluppato istinto delinquenziale, che sfogava verso le sue pipe, accendendole in modo tale da scavare delle mezze gallerie nel rim dei fornelli. Sono pipe che mettono tristezza a vederle: orribilmente deturpate e descritte con parole umoristiche come "good condition", "medium bowl darkening".
LorenzoL è riuscito a vincerla per circa 55 sterline, è intervenuto con un vigoroso topping che ha asportato circa 3,5 mm di altezza, ha fasciato il bocchino (replacement orrido in "plasticaccia") con del nastro.


Per capire le condizioni di partenza, questa è un'altra immagine presa da ebay di una delle pipe del pazzo piromane inglese, che ha distrutto in questo modo un'intera collezione di Dunhill Root, non solo quella di sopra.


Qual è il bilancio?
Da un lato, una Dunhill Root, o quel che ne resta, è stato salvato e rimesso in funzione, e questo è senz'altro un bene. Dall'altro, secondo me, si possono comprare vecchie teste Dunhill a cui rimettere un nuovo bocchino originale (essenziale, per godere dell'esperienza di fumare una Dunhill) in condizioni migliori, per molto meno dei 70 euro che questa disgraziata root ha spuntato. Dopo il topping, la forma esce imevitabilmente trasformata (e deturpata). Anche con un bocchino di Gilli, che porterebbe la spesa verso i 110 euro, questa pipa non tornerà più a essere una Dunhill 5103. Potrà essere una pipa comoda e che fuma bene. Ma per quasi un centinaio di euro (supponendo di sostituire il bocchino con qualcosa di meno ambizioso), su ebay si trova decisamente di meglio. Forse non una Dunhill in condizioni ottimali (anzi, certamente) ma altrettanto certamente qualcosa che in termini di qualità non vale meno, e che è ancora quel che dovrebbe essere, ad esempio una discreta Charatan o una Comoy's dei tempi buoni.

Così almeno la penso io.

martedì 20 novembre 2012

McClelland 2015


Il McClelland 2015 nella scatola "da pomodori pelati" in cui lo confezionava Bufflehead nel 2000, quando mi fu regalato. Oggi sfortunatamente Bufflehead non esiste più. Ma il McClellend 2015 sì. Per chi volesse vedere cosa c'è dentro la scatola,è il tabacco che ho usato in questo piccolo fototutorial.


La caratteristica dei bulk di McClelland è di non essere mai degli esatti corrispondenti di miscele inscatolate. Una scelta intelligente, che non spegne il desiderio dei pezzi forti della casa nemmeno nel più vorace fumatore di bulk. Il 2010 (bulk) è un parente del Matured Virginia 22, ma non un fratello gemello. Il 2025 è concettualmente simili al Matured Virginia 24, ma al Virginia aggiunge un differente tipo di orientale. Il 2015 è un Virginia Perique, quindi cugino del St.James Woods. Fumandoli, ci si può rendere conto che i due viaggiano su binari paralleli, ma anche in questo caso ben distanziati.
Il 2015, che a tredici anni di distanza dal confezionamento mi sono finalmente deciso ad attaccare con l'apriscatole, è un Virginia-Perique per chi il Perique ama sentirlo, e bene. L'invecchiamento ha reso il profumo del tabacco irresistibile: non sono un sommelier e non amo le descrizioni flautate. Mi spiace per chi non può sentirlo con le sue narici ma a me ricorda dei fichi secchi macerati nel Porto. Il colore è marrone scurissimo (un paio di toni più cupo di quant'era 13 anni fa). L'umidità ancora ideale, a testimonianza della lungimiranza di Mr. Bufflehead, che comunque metteva nella scatola il tabacco, dopo averlo messo in un sacchetto di nylon pesante, veramente heavy-duty.
I McClelland in bulk beneficiano anche più dei tabacchi in scatola di un po' di invecchiamento (penso che la "maturità" sia una caratteristica dei McClelland in tin che i bulk non condividono). E questi 13 anni hanno reso il mio 2015 una specie di delizia di cui raramente si trova l'eguale. E' dolce, è speziato, è pepato. Molto diverso dall'Escudo, un altro virginia-perique che ho avuto modo di fumare recentemente, e più o meno dopo altrettanta attesa. Mentre l'Escudo è levigato, questo è un piatto robusto. Se uno mi ricorda un porto invecchiato, questo potrebbe essere uno stracotto di cacciagione.
Sto delirando, lo so.

Ma sono all'ultimo barilotto di 2015. E mi ci vorranno altri tredici anni per averne un altro così...

domenica 18 novembre 2012

Caricare un broken flake


Di questa serie, dedicata a come e in che pipe cominciare a fumare i temibili flake, fanno parte anche questi post:

Fornelli da flake 1: la pot

Per la tecnica di caricamento parto da un tabacco che ho aperto, e che nella sua forma broken flake (flake rotto, già a pezzi, ma non completamente sbriciolato) è anche un buon primo approccio a questo mondo. Chi avesse flake in fette intere e trovasse qualche difficoltà, volendo, può provare a ridurle con le dita più o meno in questo stato, per semplificarsi un po' la vita nelle prime fumate (o anche dopo...).


Il Virginia oggetto di questa piccola fotostoria è il McClelland 2015, un broken flake di Virginia-Perique, in questo caso maturato 13 anni nel mio caveau. 


L'aspetto è quello del flake "broken", pezzi di fette con qualche parte un po' più sbriciolata. Ma uno stato ancora lontano dal ready rubbed. Tutti i McClelland matured Virginia hanno più o meno questo aspetto. Tra quelli disponibili in Italia ci sono i Rattray's (Old Gowrie, Hal O' The Wind, Marlin Flake etc) , tra l'altro molto buoni. La pipa è una pot, formato ideale per i primi approcci col virginia in flake. In questo caso una Foundation di Becker & Musicò.


Con il broken flake il primo passo da fare è dividere grossolanamente i pezzi di fetta più grossi dal tabacco più sbriciolato.
Si prende qualche pezzo di fetta, per un volume buono a riempire grosso modo il fondo del fornello

Io lo piego in due, ne faccio grosso modo una pallottola.

Lo infilo nella pipa, senza premere per niente.

Col dito lo abbasso un po' finché tocca il fondo, ma sempre senza premere. Deve restare tutto molto arioso, si allargherà dopo occupando il suo spazio.


Se la prima pallozza era piccola magari ne aggiungo un altra ma mi lascio del posto per mettere sopra (diciamo grosso modo dall'ultimo terzo di fornello in su) del tabacco più sbriciolato, che formerà un cappello più compatto, più facile ad accendersi e sotto il quale il flake ancora in pezzi grossi si "scioglierà" e si allargherà. Carico leggermente oltre il bordo della pipa, ma quasi solo con la forza di gravita, aggiustando solo un po' col dito.

Col dito lo riabbasso giusto a livello, sempre senza premere e senza compattare il tabacco sotto.

Questo è il risultato.

Quando si accende, il tabacco risale. Col pigino bisogna solo molto delicatamente riportarlo a livello e anche durante tutto il corso della fumata mai premere e compattare la massa, ma solo abbassare la parte superiore, se si alza, o se la pipa si spegne. Non bisogna preoccuparsi troppo delle riaccensioni. Ora che sono grosso modo a metà del mio fornello (a cui fotografando, importando foto e scrivendo non ho dedicato grandi attenzioni) avrò già riacceso cinque o sei volte. A volte una carica di flake parte subito bene, a volte ha bisogno di un po' di assestamento, poi va.  L'importante è (lo ripeto) non premere troppo. Solo colpettini leggeri che abbassano la cenere e il tabacco che si è alzato. A seconda di come si è caricato bene e della fortuna, a un certo punto si sentirà la giusta resistenza e la brace comincerà a  muoversi nel modo giusto. Senza fretta.

Delle serie di post su come e dove fumare flake fanno parte

Caricare un broken flake 
Fornelli da flake 1: La pot
Fornelli da flake 2: La prince 
Fornelli da flake 3: Dublin, zulu e fornelli conici

martedì 13 novembre 2012

Fornelli da flake 1: la pot



Dall'alto: Savinelli Punto Oro "Corallo" 122, Ashton Sovereign XX (1985), Barling (pre transition) EXEL 409



"Con che pipa si fuma, un flake?"
Tra tutte le domande che circolano tra appassionati di pipa, forse nessuna è più pressante di questa.
A torto o a ragione, il flake è considerato una specie di sport estremo. Per chi lo fuma da anni è difficile da comprendere. Ma tornando con la memoria alla prima volta in cui si è vista una di queste minuscole scatole, in cui il tabacco giace compresso, a fette, e all'apparenza del tutto impossibile da accendere e da fumare,  le cose diventano più chiare. Quella del flake è una difficoltà più psicologica che reale. E' la difficoltà del ritorno all'ignoto.
Per anni, abbiamo sfidato le dificoltà del novizio, con pazienza. Ci siamo abituati con fatica e sofferenze a trovare il giusto tocco che serve per  tenere la carica né troppo sciolta, né troppo compressa. E proprio quando, magari, cominciamo per le prime volte a trarre piacere dalla nostra pipa, si spalanca un mondo completamente diverso, che ci fa ripiombare nell'incertezza e nell'ansia.
Tutto quello che avevamo costruito, improvvisamente, non serve più a niente.
E' un po' come quel film, in cui un gruppo di quarantenni scopre di dover ridare l'esame di maturità.

In effetti occorre davvero reimparare. Ma tutto sommato, a patto di astenersi dalle guide filmate e dai manuali che rendono complesso ciò che in realtà non è poi così intricato, ce la si può fare senza troppi danni. E' comunque vero che alcune delle pipe nelle quali ci siamo abituati a fumare tutt'altre forme di tabacco, non sono le più adatte per il flake. Principalmente per una questione di dimensioni.
Il flake occupa meno spazio, brucia più lentamente. A parità di volume si fuma molto più tabacco e si occupa molto più tempo. Dunque, per mantenere costante la pipata, non resta che ridurre il volume della pipa. Il flake vuole pipe  di un gruppo o due più piccole (in unità di misura Dunhill), rispetto a quelle che siamo abituati a fumare. Riducendo il volume, però, aumentano le difficoltà di carica e gestione. Fumare una Dunhill gruppo 1 o 2, con qualunque tabacco, è un po' più difficile che fumare una gruppo 5. Ecco perché una delle pipe migliori, per cariche di taglia ridotta, è la pot.

Con la pot si riduce il volume, ma non (o non troppo) il diametro del camino. Si resta in un terreno conosciuto, riducendo più che altro l'altezza della carica. Che sia questo il motivo, o un'altra delle verità esoteriche che si diffondevano un tempo su alt.smokers.pipes, resta il fatto che la pot è la pipa ideale per cominciare con i flake. Quantomeno lo è stata per me. Se si vuole spalancare un filo la porta della mistica dei Virginia, allora la pot più raccomandabile è quella curva per 1/8. Questo perché si narra che la narice sia un organo essenziale per godere appieno del piacere della nobile foglia. E quindi il filo impercettebile di fumo che sale dal fornello della pot semicurva, raggiungendo il naso, completa un'esperienza che altrimenti resterebbe dimezzata.

Insieme alla forma, è importante scegliere per le prime cariche di virginia la pipa più pulita e più neutra possibile, con la radica di gusto più "chiaro", meglio se curata ad aria. Il virginia ci metterà comunque del tempo ad acclimatarsi, e solo dopo un po' libererà le sue sfumature più sottili (ammesso che nel frattempo si sia imparato a fumarlo). Tra le tre pot raffigurate sopra, da questo punto di vista, c'è un'intrusa. La Ashton, che con i suoi toni cupi forse dovuti alla cura ad olio offre una palette leggermente diversa e forse si adatta meglio ai virginia un po' rafforzati con perique. Tra le inglesi, una vecchia Barling pre-transition è sicuramente il massimo a cui si possa aspirare. Tra le italiane, Amorelli mi ha regalato forse la più deliziosa pipa da flake che possieda (una prince).  Ma ce ne possono essere molte altre, a patto di trovarne una di dimensioni adeguate in questo shape, il che non è particolarmente facile dalle nostre parti (le pot italiane tendono spesso al gigantismo). Occorre un marchio di ispirazione un po' classica, come Savinelli. Che con le Punto Oro Corallo tocca le corde più intime di molti amanti del Virginia.

Occorre tornare un po' sui banchi, per diplomarsi alla scuola del flake. Ma con calma e con la pipa giusta, ne vale sicuramente la pena.

Delle serie di post su come e dove fumare flake fanno parte

Caricare un broken flake 
Fornelli da flake 1: La pot
Fornelli da flake 2: La prince 
Fornelli da flake 3: Dublin, zulu e fornelli conici

sabato 10 novembre 2012

L'imprevedibile Gigliucci

La mia nuova Gigliucci, una pot-lovat dalle curve aerodinamiche che per qualche ragione mi ricordano un motoscafo.
Lunghezza 155, foro da 21, altezza 36, peso 36 gr

Solo poche settimane fa ho scritto un post nel quale raccontavo la mia visita al laboratorio di Gigliucci e mi sforzavo di raccontare quanto mi piacciono le sue pipe, e tutto quello che c'è dietro. Oggi, andando a Varese, per l'anniversario di Stefano Santambrogio e di fumarelapipa.com, ero spinto da molte ragioni. Vedere cosa Gigliucci fosse riuscito a creare nei mesi seguenti al nostro incontro era una di quelle importanti.

Non sono rimasto deluso, sia in ciò che mi aspettavo sia in quello che non avrei potuto immaginare. A Varese ho incontrato e reincontrato qualche amico. Ho ammirato una notevole carrellata di meraviglie. Tra gli eventi inattesi, ho scoperto che Gigi Crugnola (il Gigi di Gigi Pipe), è un mio vicino di ombrellone a Marciana Marina: sulla spiaggia o in giro per il paese, ci osserviamo da anni da dietro le nostre pipe. Eppure, pur avendolo incontrato altre volte in occasioni simili, non ero mai riuscito a collegare il signore in shorts sotto l'ombrellone, con il rispettato patron di una delle marche che alle manifestazioni di questo genere non mancano mai. Oggi, finalmente, ci ha pensato lui: "Lei è quello che legge sempre, vero?". E così, finalmente, sono riuscito a spiegarmi da dove veniva il senso di familiarità che ho provato per questa personalità peraltro non comune, la prima volta che l'ho visto esporre...

La pipa ti dà sorprese. E una delle più gradite l'ho trovata proprio sul banco di Gigliucci. L'altra volta ero stato a Scarlino per una chimney. Stavolta ne ho viste moltissime altre altrettanto belle. Ma mentre il pubblico se le contendeva, stavolta sono stato attirato da una pipa di genere completamente diverso. Una pot aerodinamica le cui linee, non so perché, mi ricordano un motoscafo Riva Aquarama. Uno degli aspetti notevoli e coraggiosi di questo oggetto (di cui sto godendo la fumata inaugurale proprio mentre scrivo), è il fatto che la fiamma sia tagliata in orizzontale, lasciando l'occhio di pernice sul fronte e sulla parte posteriore del fornello. Avevo già detto che Gigliucci non asseconda i capricci della natura, non ritaglia la sua pipa intorno alla venatura. Ma al contrario cerca di spingere nel ciocco giusto la pipa che in mente. Se c'è una forma che mostra in modo cristallino questo tipo di approccio, è la mia nuova pot-lovat: fumandola mi viene facile immaginare Gigliucci che esamina il suo magazzino di radica, cercando un pezzo da cui tirare fuori la strana pot a cannello lungo e arcuato cresciuta, schizzo dopo schizzo, sulla carta. E lo trova non in un prevedibile abbozzo da canadese, ma in una spicchio di radica da cui una pipa del genere può saltar fuori solo a patto che si tagli contro le regole e contro le abitudini.

Nulla diventa più tuo di quello che non ti saresti mai aspettato di incontrare. Così è stato per un pezzo di radica che ha trovato finalmente la sua pipa. E così promette di essere per me e per questa imprevedibile pot, una di quelle rare pipe che ti sembra di avere da sempre, sin dalla prima volta che le fumi.


Gigliucci 2012, grado due (su tre)

L'occhio di pernice, per una volta, è sul fronte della pipa.

La fiammatura, in questo taglio singolarissimo, corre in orizzontale, accentuando l'impressione di disegno aerodinamico (o fluidodinamico?)

Occhio di pernice anche sul retro del fornello

martedì 6 novembre 2012

Una storia schifosa



La Dunhill LB Shell, che un giorno è uscita da un pacco di ebay, puzzolente e disgustosa come forse nessuna pipa è mai stata.



Questa è una brutta e amara storia.

La storia di una pipa forse amata, ma da un vecchio testardo sporcaccione americano, perdipiù dagli orribili gusti in fatto di tabacco. Un bruto che fumava drugstore blend di burley inzuppato degli aromi a me più odiosi. E deve averne fumato per anni, ogni giorno, spietatamente in questa pipa, senza mai pulirla, lasciando i sughi nicotinici irrancidire e impreganare ogni poro della radica. Un giorno, per ragioni che non so e non voglio sapere, quell’uomo abbandonò questa pipa, che finì a patire le sue pene in un garage o in una cantina, dove alla puzza del tabacco cattivo, e della sporcizia, si aggiunse anche quella della trascuratezza. O in altre parole quell’ombra di muffa da magazzino che ben conoscerà chi è uso a frequentare mercatini delle pulci.

Quando uscì dalla scatola di cartone recapitata dal postino, non potevo credere alle mie narici. Puzzava così tanto che la misi nell’armadio delle pipe che ho in ufficio a prendere un po’ d’aria. Ma ogni volta che aprivo lo sportello una zaffata mi investiva. Questa pipa appestava anche l’aria negli spazi che occupava. Provai a fumarla per vedere di sterilizzarla con qualche fumigazione di toscano. Ricordo che era inverno, e strada facendo tra casa e l’ufficio buttavo uno scovolino dopo l’altro cercando di catturare l’umido e le sostanze venifiche che il cannello trasudava, in modo da liberarlo. Quasi arrivato all’ufficio provai ad annusare uno di quegli scovolini giallastri. E l’odore di nicotina rancida mi prese violentemente di sorpresa allo stomaco. Ebbi due urti di vomito e per poco non eruttai tutta la colazione nel cestino dove stavo per gettare lo scovolino.

Di solito non rischio il metodo sale e alcool detto “armageddon” sulle pipe di pregio. Ma se c’era una pipa al mondo che lo necessitasse, era questa! Al primo giro il sale usci catramoso, osceno. Il secondo lo stesso. Il terzo cominciò a schiarire. Al quarto capii che il lavoro era quasi fatto, almeno per quanto sale e alcool potessero fare. Asciugata la pipa, l’odore di burley impregnato era ancora lì, l’ “odore di caserma” pure. Ma la nicotina racida se non altro se ne era andata per sempre, dissolta dall'alcool e risucchiata dal sale. Da allora ho fumato questa pipa un po' con convinzione, un po' saltuariamente, per qualche mese. Quando mi sembrava guarita, la lasciavo lì a riposare. E sparito l’umido, fatalmente, il naso infilato nel fornello continuava a percepire un fondo di puzzo di caserma.

Ho così deciso di metterla pesantemente e radicalmente in cura, come avevo già fatto con la Peterson Green Spigot. Ci ho fumato toscano e virginia più volte al giorno. La pipa trasudava i suoi sentori di muffettina. Poi la muffa ha lasciato il posto al toscano, che aveva percorso tutto lo spessore del legno. Allora ho cominciato a fumarci Schurch 128 finché non ho sentito che il legno smetteva di trasudare toscano e cominciava ad odorare di latakia. I fantasmi erano fuggiti per sempre, e la mia pipa finalmente, e definitivamente guarita era tornata la pipa da latakia che avrebbe sempre dovuto essere.

E’ una brutta e amara storia. Ma fortunatamente una storia a lieto fine. La mia pipa maltrattata ha trovato finalmente qualcuno che la ama, e che ne è pienamente ricambiato.







Una pipa del 1965, solo il cielo sa quanti drugstore blend può avere bruciato