giovedì 11 dicembre 2014

Somiglianze

A volte succede di vedere una nuova pipa e sentire che ti ricorda qualcosa.
Magari una tua vecchia pipa di trent'anni fa, che avevi raccontato in un post di quattro anni fa.

Per aggiungere ironia alla faccenda, la Savinelli "nuovo corso" ha pensato bene di radiare dal suo catalogo questo e altri capolavori. Le loro forme storiche continuano a vivere, qualcuno le ripesca e probabilmente venderanno pure bene. Ma loro non credono più che possano farlo. E ti inventano cose come la straordinaria serie Safari.

E allora l'omaggio al genio di Achille Savinelli lo faccio io:


La mia Savinelli Punto Oro 509 KS, con bocchino in corno duro indiano e vera quadrata in argento (estetica), realizzati da Mauro Gilli.





mercoledì 26 novembre 2014

Una panel che canta

Forse la square panel più bella del mondo. La mia. Fatta da Chris Asteriou.


Di che materia è fatto un grande pipemaker? Per un terzo è fatto di cultura. Non la cultura dei professori (per quanto anche quella non faccia male). Ma la piccola cultura del suo lavoro e del suo mondo. Una lunga storia di marche, di shape, di varianti, di stili, di mode, di idee a volte geniali e a volte fallimentari, di cataloghi, di personaggi, di avventure. Un corpo di conoscenza viva, sudata, toccata: quella che ti dà un linguaggio comune con altri appassionati, che ti permette di capire e apprezzare quanto grande (o quanto terribile) è quello che è stato fatto prima di te. E magari, un giorno, ti permetterà anche di inventare qualcosa di nuovo, un tocco infinitesimale che ancora nessuno aveva dato prima e che farà di una pipa la tua pipa. Sì, perché il secondo terzo di un grande pipemaker è fatto di inventiva, della voglia di lasciare un segno, piccolo o grande che sia. Del desiderio di rielaborare quello che conosce e finalmente, un giorno, usarlo per creare qualcosa che prima non c'era. Quella scintilla che scocca dal profondo di qualcosa di vero. E che non potrà mai nascere dall'ignoranza, dalla superficialità, dal pressapochismo o dalla serialità bovina.
Il terzo terzo è quello che divide l'archivista dal primo violino solista. Puoi avere dentro tutto, ma non diventerà mai nulla se il buon Dio non ti ha dato anche la mano che serve per trasformare un'idea in un pezzo di legno e di ebanite capace di cantare.
Non è solo un problema di note giuste, di decimi di millimetri, di un buco dritto o storto. Una grande pipa è una armonia delicata. Ce ne sono di quasi belle, che guardi da sopra, da sotto, sembrano fatte anche bene. Eppure non cantano. Sono come belle campane di bronzo lustre, belle incise tutte intorno. Ma che suonano disperatamente fesse. Forse, con uno strumento tecnologico appropriato, si può anche capire da quale difetto interiore viene la ottusa fessaggine di quello strumento nato morto. Ma non è la cosa importante. Quello che conta è che ci sono pipe nate da un uomo (o talvolta una donna) che aveva la cultura, lo spirito e la mano per arrivare al cuore. Suonano argentine come un diapason. Sono qualcosa di più di una pipa che non ha difetti grossolani visibili. Sono capaci di dare una piccola emozione. 

Ed è lì, a quel canto, a quella piccola emozione, che chi taglia radica, qualunque sia lo strumento che usa, dovrebbe voler arrivare.

Ogni grande creatore di pipe è fatto di questi tre terzi. Ma non tutti li hanno distribuiti nelle stesse proporzioni. Per qualcuno predomina l'inventiva visionaria, altri stupiscono di più per la meraviglia della loro mano. Quando  scopri Chris (non mi avventuro nella traslitterazione del suo vero nome greco) Asteriou, l'impressione che nasce è che le tre doti siano state distribuite con un equilibrio aureo, classico. Lo incontrai per la prima volta diverso tempo fa, sfogliando il blog di Neil Archer: A passion for pipes.








Asteriou a quei tempi era un pipemaker ancora semisconosciuto al "grande pubblico" del minuscolo mondo della pipa d'autore. Lessi e rilessi l'articolo di Archer, rivivendo attraverso le sue parole il piacere che avevo provato altre volte parlando con artigiani che conoscono e che amano la pipa e che sanno muoversi perfettamente attraverso le pagine della sua storia. Quelli che non aspettano da te un progettino ma uno stimolo, un canovaccio da fare proprio e su cui cantare la propria musica.

Scoprii che Asteriou era un architetto. Ma anche che inseguendo la sua altra passione, aveva lavorato piuttosto a lungo a Roma, nel negozio di Musicò, un luogo centrale di cultura piparia. Ormai irrimediabilmente catturato al magnetismo del greco, scoprii scorrendo le sue pagine che Asteriou collezionava vecchie pipe. E dalle pipe dannatamente interessanti che raccoglieva (a volte vecchie varianti oscure di shape classici), la invidia che provavo per la incredibile lovat di Asteriou che continuava ad occhieggiarmi dal blog di Archer si estese alla collezione di pipe di Asteriou medesimo, al suo gusto raffinatissimo e alla sua abilità nel trovare nascoste chissà dove simili piccole perle di valore storico ed estetico, che raccontavano la storia meno nota di marchi come Comoy's e GBD.






Roso da desiderio e appunto dall'invidia decisi di affidare ad Asteriou un compito che non avevo ancora mai affidato a nessuno. Il sesto grado della pipa su commissione. Il trillo del diavolo del solista pipemaker. Lo shape che da sempre amo di più, la pipa che più ho invidiato a mio padre, quella di cui parlo sempre ma che mai prima avevo osato farmi realizzare, temendo il fallimento.

Molte sono le square panel. Pochissime quelle che passano l'esame. Quando ne trovo ne compro anche di imperfette. Amo le microvariazioni e anche una panel che suona un po' fessa, delle volte, per me può avere un significato. Però un conto è vedere e decidere, dare una casa al brutto anatroccolo conoscendo i suoi limiti, un conto è attendere con ansia il risultato di un lavoro su commissione e uscirne magari delusi, con le prprie aspettative infrante. Questo non ero mai stato capace di farlo ma con incoscienza mista a malvagità decisi di parlarne con Asteriou.

I colloqui via mail che ebbi con lui sono una delle esperienze più piacevoli della mia vita con le pipe. Come in una partita a tennis con una controparte abile, preparata ed elastica, la pipa cominciò a prendere forma, messaggio dopo messaggio. Io avevo i miei punti fermi, quei dettagli che guardo e che separano, per me, la grande panel da quella cosicosì. Quelle linee che devono essere continue, e quello no. Per rendere le cose ancora più difficili e pericolose, avevo il desiderio di una panel non ovvia, che non fosse la copia di qualche pipa famosa. Ma una panel nuova, una panel di Asteriou, slenderizzata, sottilmene modernizzata. Avevo anche qualche idea un po' balorda che Asteriou limò via subito, con colpi decisi.








Penso che fosse tarda primavera di un paio d'anni fa quando la panel si disegnò definitivamente con le parole e rimanemmo d'accordo che l'avrei ricevuta in settembre.  Così almeno mi pare perché ho l'impressione di averla visualizzata per un lungo mese di agosto, prima di vederla arrivare in un pacchetto marrone.

Era la prima panel di Asteriou, la mia prima panel commissionata. Ed era oltre ogni mia ragionevole o irragionevole speranza. Non era solo una panel che cantava. Era la Maria Callas delle panel.

L'ho postata su diversi gruppi italiani e intarnazionali  e qualcuno ha avuto addirittura la gentilezza di definirla la pipa più bella del mondo. Non so se lo sia. Ma penso che vedendola in queste foto la sentiate cantare anche voi.


giovedì 20 novembre 2014

Fresca Fresca


25 settembre 2014. La originale Azzipanel di Antonio Azzinnari si unisce alla scuderia delle mie pipe.
E' nata la panel brucianaso.


Quando mio padre guardava il disegno di qualche illustratore che secondo lui avrebbe fatto meglio a fare altro, gli si disegnava una piega di disappunto sulla bocca, sfregava i pollici contro gli indici e diceva: "è sudato... si sente la fatica..."
Ai tempi in cui i layout si facevano ancora col pennarello, in agenzia, cercavamo sempre quei pochi, bravi visualizer che erano capaci di disegnare uno storyboard o un bozzetto di getto, con facilità. Volevamo un layout "fresco". E glielo raccomandavamo: "mi raccomando, fallo fresco".
Non è che tutti quei ragazzi che si davano da fare col Pantone, cercando di raccontare visiviamente le nostre storielle di tonni, auto e acque minerali, fossero dei novelli michelangioli. Alcuni erano fumettisti che non avevano sfondato, altri illustratori che arrotondavano, qualcuno faceva anche il pittore (già questo termine non andava più di moda, ma a me piaceva contrariarli continuando a chiamarli così). Erano artigiani. Ma anche in un campo minore, senza bisogno di arrivare alle vette dell'Arte con la maiuscola, esiste qualcosa chiamata "talento". Nessuno può fare a meno del duro lavoro di imparare. Nessuno può saltare la fase in cui le basi tecniche del prorio lavoro vengono martellate ferocemente al loro posto, con dolore e anche con cattiveria da qualche istruttore spietato. Ma per qualcuno la fatica e il sudore rimarranno una dannazione che continuerà in eterno a gocciolare sulla carta rendendo impercettibilmente sgradevole (almeno, a chi ha occhi per vederlo) il risultato di qualsiasi sforzo. Qualcuno, invece, ha il dono di estrarre dal sudore la freschezza. A un certo punto comincia a succedere, oppure non succederà mai più.
E' per questo che a un certo punto della mia vita ho messo in soffitta il sax tenore. Non solo perché vivevo in uno slum dove minacciavano di farmi la pelle. Ma anche perché, per quanto mi ci dannassi, il maledetto trombone non voleva smettere di rimanere sudaticcio.
Quando ho visto le prime pipe di Antonio Azzinnari su Facebook, ho riso molto. Non so bene cosa Antonio faccia nella vita. Ma ha avuto il coraggio o l'incoscienza di raccontare in diretta il suo cammino di pipemaker-hobbysta sin dal primo ciocco storpiato. I primi passi di tutti i pipemaker sono quasi sempre indistinguibilmente micidiali. Non è facile capire se dietro l'obbrobrio del momento ci sia qualcuno che sta facendo i suoi conti, e che ritiene si guadagni di più a vendere pipe che posate da insalata, se ci sia un fumatore appassionato che cerca di saltare il fosso e capire lo strumento che ama passando dall'altro lato della lima, o se ci sia (come immagino fosse il caso di Azzinnari) un uomo dentro cui, ancora acerba, urla una specie di necessità espressiva, che prende forma attraverso il legno. Una materia che per qualche ragione a me ignota, lui conosce.
Per quanto conoscesse il legno, era evidente che Azzinnari non conosceva le pipe. Le sue primissime creazioni freehand erano di una mostruosità talmente eccessiva che, a posteriori, ci si può persino leggere quella scintilla di passione furibonda che poi l'ha portato avanti. E siccome davanti a una tastiera e a un monitor siamo tutti bravi, in fatto di cattiveria gli fu risparmiato ben poco. 
Azzinnari ha incassato tutto. Invece di spezzarsi si è temprato. Strada facendo ha pure avuto la fortuna di restaurare un immenso parco pipe, e per giunta di notevole bellezza. Una scuderia di purosangue che, probabilmente, ha parlato ai suoi occhi e alle sue dita, meglio di qualsiasi discussione teorica. A un certo punto abbiamo tutti smesso di ridere, perché Azzinnari stava cominciando a sfornare delle pipe che, anche se ancora non mature, e talvolta tutt'altro che perfette, cominciavano ad essere interessanti, cominciavano ad avere personalità. Discuteva volentieri dei "difetti" veri o presunti delle sue pipe, poi faceva di testa sua (come deve essere).  Non è che tutto fosse bello, ma tutto era inconfondibilmente suo e certe cose (per esempio la rusticatura, per esempio un taglio piuttosto vigoroso e maschio comune alle sue pipe) cominciavano a diventare stile, ovvero quella cosa che chi suda non potrà avere mai.
Un giorno sfornò una pipa rusticata, con una rusticatura così vigorosa e cattiva che mi fece dire: "fanculo, la prendo". Era già venduta, ma il diaframma era rotto.
Poi Azzinari ha inventato l'Azzipanel. Ha preso due idee che circolavano, la brucianaso (che da anni imperversa in mille versioni, più o meno riuscite) e la panel, un mio vecchio pallino, forse la forma che amo di più, e ne ha fatto una pipa sua, teoricamente assurda, non certo un modello di bellezza classica, ma una pipa assolutamente nuova e con un certo fascino. Una pipa che si può amare od odiare. Ma che è, su questo non ci sono dubbi, una pipa "fresca". C'è dietro un sacco di fatica eppure la pipa sembra che si sia fatta da sola, con naturalezza.
Stavolta l'ho presa al volo, e con me molti altri. Azzinnari ne sta facendo un genere: normale, chimney, semicurva, più tozza, meno tozza. Come la fai, funziona (perlomeno per chi, come me, con le pipe ama anche divertirsi). E' il segreto delle buone idee: fanno sempre nascere altre idee. E in più le sue pipe, come stiamo scoprendo, sono anche molto buone. Sono fatte (come del resto tutte le pipe serie) con la migliore radica che il denaro possa comprare. In questo caso, ottima radica calabrese.

Altre panel brucianaso verranno e auguro ad Azzinnari di non aversene a male. L'imitazione è sempre la migliore forma di adulazione. Avere inventato una pipa di successo, una capostipite di genere, è una grande tappa nella vita di ogni pipemaker. Farla agli albori della propria carriera non è una cosa da poco.







domenica 9 marzo 2014

La termodinamica della pipa


Una lettura che vale la pena di fare, dal blog di Neil Archer.
Termodinamica della pipa.
 

E' interessante leggerlo (compreso il link all'articolo di Ermala e Holst).
La versione breve è: provate ad usare un fiammifero, ogni tanto, invece dell'accendino. Non pretendete di accendere sempre tutta la superficie. Fumate piano, e più fresco che potete. E molti dei tabacchi a cui siete abituati potrebbero cambiare in meglio. La cosa in sé non è nuova. Ma Neil vi spiegherà anche il perché.

sabato 1 marzo 2014

A tuo rischio e pericolo






Il Condor. Uno dei tabacchi inglesi più tradizionali, e al contempo meno "inglesi" che il fumatore nostrano possa immaginare.


Chi immagina l'arte del fumo inglese, tende a raffigurarlo come una faccenda da squisiti gentlemen. Guanti di capretto, dolcevita di cachemire, giacche di tweed, macchine scoperte. Un mondo fine e sofisticato, fatto di cose del genere.

Raramente della società inglese, stratificata e feudale come poche altre, si immagine la base portante. Quella fatta da gente con le mani sporche, che guida carrozze invece di sedercisi dentro, scava carbone, martella, sputa, suda, beve birra nera, si prende a cazzotti, si imbarca sulle navi, fuma in una pipa Falcon, compra il tabacco dal giornalaio insieme a un tabloid e lo fuma più o meno con lo stesso spirito con cui da sempre viene bruciato nelle taverne, da quando il tabacco è sbarcato su quelle coste, diventando una delle sostanze psicoattive di maggiore successo in ogni strato sociale.

Quel tabacco da newstand, britannico e intraducibile quanto un insaccato di interiora di pecora, tanto onnipresente nel Regno Unito quanto introvabile al di fuori, più spesso che no è il Condor.
Ne ho avuto una busta  per gentile cortesia di un amico veronese, che lo trovava infumabile. Fino a oggi ho affrontato diversi tabacchi di questo tipo, che mi è alquanto ostico. Ma in un modo o nell'altro ho sempre trovato qualcosa da apprezzare. Quindi, ho aperto la busta con un misto di timore reverenziale e speranza. Ero convinto che fosse una sfida complessa ma pensavo anche che in un modo o nell'altro qualcosa di imprevedibile mi avrebbe dato soddisfazioni che ancora non riuscivo a immaginare.

Dopo qualche carica, che in nessun caso sono riuscito a gustare, devo ammettere di essermi sbagliato del tutto. Se per altri il Condor risulta insopportabile a causa della spessa profumazione cipriata, per me questo è stato solo uno degli elementi che hanno certificato la mia totale incompatibilità con questo tipo di tabacco.

La cipria, sì, è pesante. Fumandolo mi sono tornati in mente anni nei quali, appena scoperto il mondo delle fragranze e (soprattutto) l'esistenza di un universo divertente e promettente fuori dalle mura di casa, consumavo litri di  un'acqua di colonia particolarmente in voga negli anni '80: Lagerfeld. Alla sera mi sentivo stordito dall'odore penetrante del mio stesso profumo, oltre che dalla quantità non sempre moderata di aperitivi e altro che avevo buttato giù, prima di tornare a casa. Lo stesso avviene col Condor, nel breve spazio tra l'accensione e il primo terzo di fornello. Ho cambiato varie pipe nel tentativo di venirne a capo, compresa la filologica Falcon, ma non sono riuscito in nessun caso a limitare lo stordimento.

Perché nel Condor è pesante anche tutto il resto. E' un virginia scurissimo, firecured. Quel tipo di tabacco di forza bruta, sorda, spietata, che martella senza acuti o colorature, con colpi duri, ritmati, ossessivi. Un cazzotto nello stomaco, dato da un gangster inquartato ma odoroso di cipria, che ti sputa accanto, mentre ti contorci nel vicolo. Così mi è apparso il Condor.

Dopo diversi tentativi, ancora non sono riuscito a finire un fornello. Sono sempre a terra, nel vicolo. Mentre il Condor se ne va, coi suoi passi pesanti, tirando un ultimo sputo per terra, prima di girare l'angolo. E lasciandosi dietro una scia di profumo da drogheria, completamente insensato.

giovedì 6 febbraio 2014

You won't worry about earthquakes - Telegraph Hill G.L. Pease


Telegraph Hill di Gregory L. Pease, nella pipa in cui lo sto fumando adesso: una Charatan Special 320 DC degli inizi Era Dunhill (circa 1980)

Scrivo delle mie pipe e dei miei tabacchi ormai da un po' di tempo, eppure, rivedendo l'indice dei vecchi articoli prima di cominciare questo, mi rendo dell'ingiustificabile rarità degli articoli dedicati a quello che è con ogni probabilità il più grande blender moderno: G. L. Pease.
Perché tanta avarizia? Forse che i tabacchi di GLP mi piacciano meno di tante altre marche a cui ho dedicato ripetuti omaggi? Più probabilmente, il contrario. 
L'aggettivo più adatto per descrivere lo stile di GLP è "intricato". Raramente i suoi tabacchi escono dalle categorie codificate, quasi mai usano ingredienti esterni (e quando lo fanno, è qualche goccia di rum usato durante la trasformazione in cake), sempre sono fatte col miglior tabacco che il denaro possa comprare. Eppure fumandole quasi mai ti trovi di fronte a qualcosa di diretto, facile. Sono più tabacchi da concentrazione che da relax. E quando arrivi in fondo alla pipa, non sei mai così sicuro di avere capito tutto quello che c'era da capire. "Ne scriverò la prossima volta", pensi. E intanto la scatola finisce... E se è difficile parlarne quando ne stai fumando, ancora più improbabile diventa rimettere insieme i ricordi, appunto, intricati e cercare di fare un ritratto che rende minimamente giustizia al lavoro di chi ha creato quell'equilibrio fragile, cangiante, che non ti è ancora riuscito di mettere in parole. "Sarà per la prossima scatola", pensi. Ma riempita la pipa, acceso il fiammifero, tutto si ripete identico. Come al giorno della marmotta.




La scatola, fuori e dentro. Netto il predominio dei virginia orange e rossi, maturi, gloriosi. Quello del perique è solo un accento. Ma è quello giusto.

Per venirne fuori, stavolta, arrivato verso la metà della scatola, ho deciso di mettermi una pipa in bocca e scrivere, semplicemente, senza pianificare quasi niente. Credo sia l'unico modo di non cadere ancora una volta nella trappola di GLP. La magia non si batte con la pianificazione, forse ci riuscirò con l'improvvisazione.
Appena lo apri, il Telegraph Hill è già una sfida alla tua abilità di descriverlo. L'odore ha qualcosa dei vecchi virginia inglesi, quando prendono di fico secco. Ma di complemento c'è anche quella punta acetica, così tipicamente americana, che ben conosce chi ama i virginia McClelland. Quell'odore che insieme allo zucchero che trasuda dalle foglie ricche dell'Old Belt fa venire in mente l'aroma del ketchup. E' un virginia un po' del vecchio mondo e un po' del nuovo, insomma. E forse per questo ha il nome di un luogo simbolico di San Francisco. Il perique c'è, indubbiamente, ma non ti calcia sulla faccia, non ti trapana le narici. E così rimane una volta che lo accendi.
Tutto quello che ti aspetti da quello che vedi e annusi, nel Telegraph Hill c'è anche quando lo fumi. I virginia sono maturi, dolci, grassi. Il perique è come il triangolo nell'orchestra, o come il pepe nel panpepato: quando vibra, lo senti. Ma tintinna con misura.
La nota dominante resta quella di un dolce molto soddisfacente, morbido, pieno di sfumature e di giochi interni, un intreccio di virginia in cui quasi nulla (o forse nulla) è più chiaro di un bell'orange carico. E poco è più scuro. Forse c'è un po' di firecured ma veramente poco, non tanto per dare forza ma per dare un contrappunto alla sofficità dominante. Per me, fino a questo momento, si è rivelato il virginia più godibile di GLP.
E' un tabacco da fumare ad occhi socchiusi, godendo tutto quello che le sue curve morbide ti regalano ad ogni svolta. Mentre lo fumi, poco di quello che succede intorno potrebbe interessarti.

Per ora l'ho fumato in queste pipe: una Dunhill County gruppo 4, una aerofusi di Daniele Fusi e una chimney Dunhill Cumberland, con army mount in corno.

Caratteristica di quasi tutti i tabacchi di GLP, costruiti come sono su equilibri delicatissimi, è quello di essere molto cangianti da pipa a pipa. Lo fumo in pipe ben avvezze ai virginia un po' conditi, e ogni volta mi sorprende un po'. Più autoritario nella Dunhill quadrata, più rotondo e dolce nella pipa di Daniele Fusi (che con il suo sistema a calabash inversa esalta alcune frequenze, ma non il perique, come mi fanno le aerobilliard di Radice con altre miscele). Ancora acerbo nella Dunhill chimney che si sta svezzando. E' un tabacco che costa, ma è anche un tabacco che in una scatola sola contiene infinite sorprese. Sono soldi ben spesi, anche perché il rapporto qualità/prezzo è difficile da battere quando il numeratore tende a infinito.

sabato 1 febbraio 2014

Il vento dell'Est





Poche cose sono confuse e opinabili come la nomenclatura delle miscele. Se è difficile andar d'accordo parlando di politica mediorientale, trovare un accordo sulla definizione di una miscela può risultare addirittura impossibile.
In questo campo astruso, forse il vertice della esotericità è raggiunto dal termine "Oriental Mixture". Chi ha qualche anno di pipa sulle spalle forse ricorda che questa definizione un tempo troneggiava su molte preziose scatole inglesi. Per un blender inglese "Oriental Mixture" è stato per lunghi anni sinonimo di miscela che ai tradizionali tabacchi coloniali (perciò in primis i virginia americani o di altre zone dell'Impero) aggiungeva i profumi esotici e le qualità di controllo termico dei tabacchi "orientali". Un aggettivo piuttosto vasto che, un po' come sulle vecchie carte dell'Impero Romano, riuniva in un'unica categoria tutto il vasto ed esplorato non-mondo esterno ai confini domestici. In questo caso, "orientale" stava ad indicare tutto ciò che proveniva dall'emisfero turco: balcani, Cipro, Anatolia, Siria, tabacchi potenti o profumati, leggeri o intrisi di fumi grassi come il latakia. Il latakia era una parte non ben distinta di questo tutto, e perciò la "oriental mixture" di un tabaccaio di Bond Street era grosso modo quella combinazione di Virginia di varia provenienza e tabacchi turchi tra cui il latakia. Così tipica delle miscele britanniche di tipo aristocratico (ben altri essendo i tabacchi di uso popolare) da prendere altrove il nome, non meno confusionario, di "miscela inglese".

Oggi quegli stessi miscugli di tabacchi si chiamano con molti nomi diversi, per esempio "english mixture", "latakia mixture" o anche, ancor più recentemente "balkan mixture" (categoria artificiale nata dal marketing un po' acchiappatutto, sovrapposta alle prime due, che assume significati diversi a seconda di chi la usa, e dunque del tutto inutile e confusionaria). Ma non più "Oriental Mixture".

L'Oriental Mixture è diventata un'altra cosa: una miscela ad alto tasso di orientali, generalmente senza o con solo una leggerissima ombra di latakia (che oggi si tratta sempre più come un tabacco distinto dagli orientali generici), mescolati al Virginia. Per quanto alto sia il tasso di orientali, o sia forte sia la caratterizzazione su una singola varietà (oggi siamo diventati più analitici in questo campo) qualsiasi miscela orientale, con rare eccezioni, continua ad avere il Virginia come suo componente principale.

Le Oriental, in accezione moderna, sono miscele di cui in Italia esistono pochissimi esempi, e poco rappresentativi. Anche per questo, per chi di tabacchi conosce poco, continua a essere difficilissimo capire di cosa sappiano questi tabacchi fantomatici dell'Oriente. Una soluzione è quella di assaggiare gli orientali puri che si trovano in due differenti combinazioni sfuse da Dubini, a Chiasso (raccomandabile quella di Poul Olsen). Esisteva in Italia anche la Orient Spezialitat Torben Dansk. Oggi è fuori commercio, e comunque non è una perdita gravissima, visto che il tipo di orientale che conteneva era piuttosto aspro e sigarettoso.
Tutt'altro mondo in termini di gradevolezza e ricchezza cangiante,  è quello della miscela di turchi puri in bulk di McClelland. Almeno per chi riesce a mettere le mani su una quota di questo bulk, tanto economico quanto stratosfericamente buono. Dopo averlo fumato in purezza per un periodo, ho deciso di provare a usarlo per una miscela orientale-inversa, ovvero per un mix in cui fosse il Virginia a fare da contrappunto alle volute contorte, esotiche, tostate, di questa incredibile falange di aromi.

Ho pensato a una proporzione di 3/4 orientale e per il quarto di virginia ho messo insieme una squadretta a base dolce, con una piccola dose di McCranie Red Flake usato delinquenzialmente nel mio pastrocchio per dare un po' di "cilindrata" alla squadra di virginia.

Ne è risultato un tabacco che definirei "da meditazione". E come una di quelle bottiglie di marsala cinquantenario che si tengono sul fondo del bar, da sorseggiare non tanto in momenti speciali, quanto in situazioni in cui ci si sente singolarmente ispirati a divagare verso sentieri dell'immaginario particolarmente tortuosi. Ho un paio di Dunhill di misura mediopiccola in cui questa miscela brucia in modo che trovo ideale. Un po' allungate, leggere, lasciano salire le loro volute psichedeliche mentre mi allungo sul divano a occhi socchiusi.

Penso sia un Oriente non meno appagante di quello che avrebbe potuto avvolgerci in una fumeria dell'East Side. Ma quando la brace ha fatto la sua strada e la pipa si fredda, è decisamente più facile venirne fuori.


Toni's Oriental No. 1

- 75%  --  McClelland Blended Turkish Ribbon
- 25% --  Virginia Blend  (--> 66% Torben Dansk Virginia Mysore 1.6 mm; 17% Golden Glow; 17% McCranie's Red Flake)